testata_6.jpg

La Malattia – Approfondimento

 

Nozioni storiche sulla malattia

Il primo neurologo a definire le caratteristiche neuropatologiche e cliniche della SLA fu il medico francese Jean-Martin Charcot (Parigi 1825 – Nièvre 1893) nel 1869. Il merito di questo scienziato nella caratterizzazione di questa malattia (ed in generale nel campo degli studi neurologici) è immenso: tuttavia, così come tutte le più grandi menti della scienza, anche Charcot dovette sedersi sulle spalle di giganti per poter vedere più lontano. Difatti, substrato necessario al lavoro di Charcot, furono i molti studi sulle malattie primitive del motoneurone condotti negli anni precedenti al 1869 sempre ad opera di medici francesi;  a riguardo è necessario ricordare il medico François-Amilcar Aran (Bordeaux 1817 - Parigi 1861), il quale descrisse per la prima volta un quadro clinico caratterizzato da deficit motorio progressivo degli arti superiori, soprattutto alle mani, associato ad atrofia muscolare, che denominò Atrofia Muscolare Progressiva. Sulla scia di quegli studi, Charcot differenziò dalla malattia descritta da Aran (molto probabilmente l’attuale Atrofia Muscolare Spinale), un’altra variante che presentava, oltre ad ipotenia ed amiotrofia, un nuovo segno clinico, ovvero la spasticità, evidente manifestazione di una compromissione corticospinale: Charcot chiamò questo quadro “Sclerosi Laterale Amiotrofica”. Pertanto, in onore del medico che per la prima volta la descrisse, la SLA viene anche chiamata con l’eponimo Malattia di Charcot.

Nel mondo anglosassone invece, la SLA è nota anche come Malattia di Lou Gehrig, dal nome del famoso giocatore di baseball che ne fu colpito sul finire della prima meta del ‘900 e che, in virtù della sua importante risonanza sociale, fu determinante nel diffondere la conoscenza di questa terribile malattia anche alle masse.

 


Epidemiologia

Secondo i registri europei di malattia, l’incidenza della SLA è pari a 2,16 casi all’anno ogni 100.000 persone, mentre la prevalenza è stimata intorno alle 4-6 persone ogni 100.000: uno scarto così piccolo tra incidenza e prevalenza suggerisce la gravità della prognosi della SLA, capace di portare a morte oltre il 75% dei pazienti a 5 anni dalla diagnosi; per quanto riguarda invece la prevalenza nel sesso, possiamo affermare che statisticamente gli uomini sono più colpiti delle donne.

Questi dati mettono in evidenza come la SLA, pur essendo una patologia relativamente rara, abbia un impatto devastante, sia sull’individuo colpito, a causa della progressiva limitazione funzionale sulla quale le terapie oggigiorno a disposizione non riescono ad intervenire efficacemente, che sulla famiglia e i servizi sanitari a causa delle importanti problematiche che emergono nella gestione del paziente, nel tentativo di preservarne il più a lungo possibile la qualità della vita. Di recente la SLA è giunta ancor più agli onori della cronaca poiché, nel mondo del calcio, ha colpito una cinquantina di giocatori in tutto il mondo (con una prevalenza circa sei volte maggiore rispetto alla popolazione generale), sollevando il dubbio che possano esserci dei fattori predisponenti, ad oggi ancora ignoti. L’esistenza di fattori predisponenti, anche se mai provata al di fuori di ogni ragionevole dubbio, è già stata ipotizzata più volte, in particolare in considerazione dell’esistenza di aree geografiche di incrementata incidenza di tale malattia, tra cui si ricorda la particolare forma di SLA del Pacifico Occidentale, associata a Parkinson e demenza, e che si pensa possa essere correlata all’assuzione dell’eccitotossina beta-metil amino alanina, derivante dal consumo di semi di Cycas circinalis (fadang) da parte delle popolazioni Chamorro.


Eziopatogenesi

Nel corso di questi anni, mediante studi clinici finalizzati a trovare elementi comuni nelle anamnesi dei pazienti, sono stati individuati una serie di fattori in grado di aumentare statisticamente le probabilità di sviluppo della malattia; questi elementi sono rappresentati dall’età avanzata (insorgenza media intorno ai 60 anni), dal sesso maschile, dall’esposizione a sostanze tossiche e in ultimo, si ipotizza, anche da traumi e dall’estrema attività fisica. Di fianco a questi fattori dal significato probabilistico, ritroviamo invece un elemento con profilo maggiormente deterministico: stiamo parlando dell’ereditarietà genetica. Difatti, un carattere molto importante della SLA, comune tra l’altro anche ad altre patologie degenerative del sistema nervoso, è quello di presentare una minoranza di casi su base ereditaria che, dal punto di vista del fenotipo, sono praticamente indistinguibili dalla forma sporadica: in termini epidemiologici, la variante familiare presenta un impatto complessivo pari a circa il 10% mentre il rimanente 90% ha carattere sporadico. Dal punto di vista clinico, la sola differenza che possiamo rilevare tra le due forme è l’età d’insorgenza: difatti le forme familiari presentano tendenzialmente un esordio più precoce rispetto alle forme sporadiche. La pressoché totale identità fenotipica delle due varianti, ha rinforzato l’idea che la conoscenza delle alterazioni genetiche e molecolari alla base delle forme familiari possa essere un ottimo stratagemma per riuscire a decodificare le alterazioni biologiche presenti nella più comune forma sporadica.

 

In questo senso, un passo fondamentale nella ricerca sulla SLA è avvenuto nel 1993 con l’individuazione del primo gene direttamente correlato all’insorgenza di una forma familiare, ovvero il gene codificante per la proteina superossido dismutasi-1 (SOD1), un enzima con l’importante ruolo di detossificatore cellulare. La forma di SLA dovuta alla mutazione di SOD1 rappresenta circa il 20% di tutte le forme familiari. La diretta conseguenza di questa mutazione è costituita da un aumento della concentrazione delle specie reattive dell’ossigeno (ROS) all’interno del motoneurone. Tale scoperta portò quindi ad investigare il ruolo dell’omeostasi ossidoriduttiva nella fisiopatologia della SLA, con il riscontro di numerose evidenze circa un aumento dello stress ossidativo, dovuto sia all’acquisizione di funzione tossica da parte della proteina mutata che alla perdita della fisiologica funzione antiossidante. I ROS sono prodotti del catabolismo endocellulare particolarmente temuti poiché in grado di danneggiare estesamente la cellula a livello dei diversi subcompartimenti, modificando proteine, lipidi di membrana e acidi nucleici. Successive evidenze sperimentali hanno poi mostrato la stretta interazione esistente tra il sistema ossido-riduttivo e altri sistemi omeostatici, quali quello mitocondriale (con deficit energetico, produzione ulteriore di radicali liberi a livello della catena respiratoria e induzione dell’apoptosi) e quello glutammatergico (con conseguente eccitotossicità da eccessivo ingresso di calcio). In particolare, l’ipotesi eccitotossica ha portato poi allo sviluppo del riluzolo, un composto antiglutammatergico in grado di estendere in maniera modesta la sopravvivenza dei pazienti affetti da SLA.

 

Negli anni successivi alla scoperta di SOD1 (e di tutte le relative conoscenze acquisite di riflesso), sono stati individuati molti altri geni  la cui mutazione è associata a questa malattia: attualmente si conoscono difatti più di 15 diverse forme di SLA ad eziologia genetica.

 

Tipologia

Esordio

Trasmissione

Cromosoma

Gene

SLAf tipo 1

Adulto

AD/AR

21q22.1

SOD1

SLAf tipo 2

Giovanile

AR

2q33-35

ALS2

SLAf tipo 3

Adulto

AD

18q21

?

SLAf tipo4

Giovanile

AD

9q34

SETX

SLAf tipo 5

Giovanile

AD

15q15-21

SPG11

SLAf tipo 6

Adulto

AD

16p11.2-q21

FUS/TLS

SLAf tipo 7

Adulto

AD

20p13

?

SLAf tipo 8

Adulto

AD

20113.33

VAPB

SLAf tipo 9

Adulto

AD

14q.11

ANG

SLAf tipo 10

Adulto

AD

1q36

TARDBP

SLAf tipo 11

Adulto

AD

6q21

FIG4

SLAf tipo12

Adulto

AD/AR

10p15-p14

OPTN

SLAf – FTD1

Adulto

AD

9q21-22

?

SLAf – FTD2

Giovanile

AD

9p13.2-21.3

?

SLAf

Adulto

AD/AR

7q21.3-q22.1

PON1-2-3

SLAf

Adulto

AD

2p13

DCTN1

SLAf

Adulto

AD

9p13-p12

VCP

 

Tra le mutazioni riportate in tabella, due in particolare hanno catturato l’interesse dei ricercatori: stiamo parlando delle mutazioni a carico dei geni codificanti per TDP-43 e FUS/TLS, entrambe proteine coinvolte nella processazione dell’RNA messaggero (mRNA). Per poter capire al meglio il motivo di tale interesse, è dapprima necessario effettuare un rapido excursus circa i meccanismi biologici alla base della maturazione dell’mRNA nei neuroni. A causa delle notevoli dimensioni, la regione del neurone dov’è più alta la necessità di formazione di proteine, ovvero la sinapsi, si ritrova a notevole distanza dalla regione cellulare dove viene trascritto l’mRNA, vale a dire il corpo cellulqare, dove risiede il nucleo. L’abilità del neurone di direzionare la sintesi proteica presso specifiche regioni cellulari (in funzione delle reali necessità) è resa possibile mediante la formazione dei cosiddetti Complessi Ribonucleoproteici, altresì definiti Granuli di RNA. All’interno di questi granuli, oltre al filamento di mRNA, ritroviamo tutte le molecole necessarie ad una traduzione a distanza dello stesso: avremo pertanto subunità ribosomiali, fattori di trascrizione, elicasi, enzimi di catalisi, proteine di sostegno ed infine, le cosiddette RNA binding proteins (RBPs), ovvero le proteine che legano direttamente la molecola di mRNA presente all’interno del granulo, evitandone così la degradazione da parte degli enzimi catalitici. TDP-43 e FUS/TLS sono entrambe RNA binding proteins.

 

 

A causa del loro ruolo fondamentale nel metabolismo dell’RNA messaggero, appare evidente come una mutazione di TDP-43 e di FUS/LTS abbia necessarie ripercussioni in termini di stabilità della molecola di mRNA e quindi sulla reale possibilità di traduzione della stessa. In particolare, recenti studi hanno dimostrato come, in caso di mutazione di TDP-43, vi sia un’alterazione dei livelli di mRNA codificanti per le catene leggere dei neurofilamenti (NF-L) e che tale alterazione sia alla base della formazioni di aggregati nel neurone. La formazione dei neurofilamenti prevede difatti un equilibrio tra le tre subunità principali, rinominate, in funzione del peso molecolare, catene leggere, catene intermedie e catene pesanti: una diminuzione dei livelli di mRNA codificante per NF-L determina una minor concentrazione della catena leggera stessa con disequilibrio rispetto alle altre due componenti e successiva alterazione della struttura della macromolecola. Il neurofilamento così formatosi presenta pertanto una morfologia alterata che da un lato lo rende funzionalmente inattivo e dall’altro ne impedisce la degradazione, con un inevitabile accumulo endocellulare. Ovviamente, la formazione di questi aggregati comporta sia una disfunzione del trasporto assonale e dell’omeostasi della neurotrasmissione a livello delle regioni più distali della cellula nervosa, sia un aumento dello stress cellulare dovuto proprio all’accumulo e al mancato smaltimento di queste molecole.

Concludendo, possiamo affermare che la morte dei motoneuroni nella SLA è attualmente riconducibile all’alterazione di una serie eterogenea di processi biologici fondamentali, quali :

  • Disfunzione mitocondriale
  • Alterata omeostasi del Calcio e del Glutammato
  • Danno ossidativo
  • Disfunzione nella formazione del citoscheletro
  • Alterazione della maturazione e del trasporto del mRNA

 


Neuropatologia

A livello macroscopico, gli aspetti neuropatologici essenziali sono rappresentati in primis dalla perdita dei motoneuroni delle corna anteriori, del tronco encefalico e della corteccia, con degenerazione del fascio corticospinale.

 

 

Proseguendo l’indagine morfologica fino alla microscopia ottica, è possibile evidenziare – nei neuroni coinvolti dal processo degenerativo – la presenza di abbondanti inclusioni citoplasmatiche, in particolare inclusioni eosinofile o corpi di Bunina, inclusioni basofile, inclusioni ialine e inclusioni conglomerate. Infine, all’immunoistochimica, si può rilevare positività per ubiquitina e TDP43.

Per quanto riguarda l’aspetto muscolare, i muscoli interessati presentano il classico quadro dell’atrofia neurogena, caratterizzato da gruppi di fibre normali frammisti a fibre muscolari in vasi stadi di degenerazione con aumento del tessuto connettivo ed adiposo.

Nonostante la degenerazione delle strutture motoneuronali sia il principale elemento caratterizzante questa malattia, recentemente si sta facendo sempre più strada l’idea che il processo degenerativo della SLA sia in realtà multisistemico, capace cioè di coinvolgere altre strutture del SNC: in particolare, le inclusioni IHC positive a TDP43 ed ubiquitina sono state ritrovate anche a livello della corteccia frontale e temporale, per esempio suggerendo una relazione tra SLA e demenza frontotemporale (si veda oltre).


SLA e Demenza Frontotemporale: due facce della stessa medaglia?

Nel corso degli ultimi anni, abbiamo assistito ad un netto cambiamento nella concezione della SLA, entità nosologica non più concepita come processo degenerativo limitato ai motoneuroni, bensì intesa come patologia neurodegenerativa a carattere multisistemico, capace cioè di intaccare l’integrità morfologica (e quindi il fisiologico funzionamento) anche di altre strutture del sistema nervoso, con particolare riferimento alla corteccia encefalica del lobo frontale e temporale: in definitiva, secondo la nuova concezione, nella SLA i motoneuroni sono principalmente, ma non esclusivamente, colpiti. In seguito a svariati studi, si è arrivati così a parlare di un vero e proprio continuum tra SLA e la demenza frontotemporale (FTD), giungendo alla definizione di svariate forme intermedie – anche subcliniche – quali la SLAbi (behavioral impairment) o la SLAci (cognitive impairment).

 

 

 

Diagnosi e Forme cliniche

La diagnosi viene attualmente formulata in base ai Criteri di El Escorial nella versione rivista del 1998 che, tra i cambiamenti più importanti rispetto alla versione precedente del 1994, ha escluso la categoria di SLA sospetta (categoria che è stata giudicata possedere troppa incertezza diagnostica per giustificare il “peso” della comunicazione al paziente). Semplificando, i criteri di El Escorial prevedono una diagnosi imperniata sulla presenza concomitante di segni di compromissione del primo e del secondo motoneurone, con evidenza di progressione nel tempo. Inoltre, vengono distinti diversi gradi di probabilità decrescente di malattia sulla base del numero di distretti coinvolti (bulbare, cervicale, toracico, lombosacrale): SLA definita, SLA probabile, SLA possibile.

Nella forma più classica, la cosiddetta forma spinale, il quadro si caratterizza per amiotrofia e fascicolazioni, sopratutto a livello dei muscoli interossei delle mani, dell’eminenza tenar ed ipotenar, con iperreflessia osteotendinea diffusa e cloni. Il deficit peggiora sempre di più con conseguente limitazione funzionale in parallelo alla progressione dell’amiotrofia che coinvolge man mano distretti sempre più prossimali. Possono comparire crampi dolorosi, spesso agli arti inferiori. La compromissione del fascio corticospinale si evidenzia in particolare per la comparsa di ipostenia spastica agli arti inferiori con iperreflessia e clono achilleo o rotuleo inesauribile; può essere presente una risposta cutaneo-plantare scorretta o un franco segno di Babinski. La compromissione bulbare è in genere più tardiva e questo spiega la sopravvivenza più prolungata di questi pazienti rispetto a quelli in cui il quadro esordisce con segni bulbari. La forma bulbare (25-30% dei casi) è tra tutte la più aggressiva, portando rapidamente a disartria, disfagia e dispnea, accompagnate da fascicolazioni linguali ed eventualmente deficit del distretto facciale inferiore e del nervo mandibolare (muscoli masticatori). Anche i muscoli del collo vengono colpiti con conseguente caduta del capo (dropped head). La variante di Patrikios, o pseudopolineuropatica (circa il 5% dei casi), presenta un quadro di compromissione prevalente del secondo motoneurone agli arti inferiori con un decorso più benigno. Inevitabilmente, nelle fasi più tardive della malattia compaiono però i segni di disfunzione del primo motoneurone e del bulbo. Un’altra variante di SLA, nota come forma di Vulpian-Bernhardt è caratterizzata da una diplegia brachiale ingravescente (da cui il termine anglosassone di flail arm syndrome) e presenta una progressione di malattia un pò più lenta rispetto alle altre forme. In Tabella 2 sono riassunte le caratteristiche cliniche delle varie forme.


Decorso della malattia

La malattia presenta un decorso ingravescente con ipostenia artuale e segni di disfunzione bulbare (che eventualmente possono dominare il quadro sin dall’esordio nelle forme bulbari) con graduale disfunzione respiratoria. Il decesso avviene in genere per polmonite ab ingestis o per insufficienza respiratoria.

Globalmente, come già detto, nella SLA la mediana del tempo di sopravvivenza dall’esordio della malattia va da 20 a 48 mesi, ma si stima che il 10-20% dei pazienti presenti dei tempi di sopravvivenza superiori a 10 anni, con una conseguente necessità, sempre più pronunciata, di assistenza. Le forme bulbari sono quelle che presentano sopravvivenze più limitate, ancor più accentuate tenuto conto che il ritardo medio tra l’esordio dei sintomi e la diagnosi nella SLA è di circa un anno.

 

Terapia

Le possibilità attuali di intervento terapeutico sono modeste. Infatti l’unico farmaco approvato per il trattamento della SLA è il riluzolo al dosaggio di 100 mg/die. Si tratta di un farmaco che offre un beneficio modesto a prezzo di una tossicità epatica non irrilevante (necessità di svolgere periodicamente controlli ematochimici). Vista la modesta efficacia del farmaco nel modificare il decorso della malattia c’è una continua spinta al disegno di nuovi studi clinici volti a testare nuovi composti farmacologici.